Sangue su Sangue

[Dentro il Background 2023 - Sangue - Khardan Odrovan]

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    Come spesso accade le grandi storie, quelle davvero belle ed intense, non vengono mai raccontato. Vuoi perché il Fato decide così, vuoi perché la sfortuna ci mette del suo o perché – come in questo caso – il Diavolo c’ha messo lo zampino. Uno zampino che non poteva in nessun modo essere evitato, aggiungo, avvertendo già al lettore di questa storia come effettivamente, alle volte, le cose sono per forza inevitabili. Questo concetto, per uno come Khardan Odrovan, è sempre stato chiaro come la luce del sole e pure in questa piccola storia ignobile, quasi banale, non fa testo.

    Non dobbiamo correre con la fantasia chissà quanto tempo fa, forse un anno o un anno e mezzo, decisamente un tempo brevissimo per raccontare una storia ma allora era solo un momento nella vita dello Zehadin, un momento che non poteva sapere gli avrebbe cambiato radicalmente alcuni punti di vista, nonostante l’età. Viaggiava – come suo solito – da una parte all’altra di Assiah con lo Spadone in spalla, pronto a dar battaglia a chi fosse stato abbastanza coraggioso da affrontarlo e piegava i suoi servigi per qualche spicciolo, quelli necessari per poter continuare a viaggiare; si era dovuto fermare nell’Impero della vasta Concordia, più precisamente in una delle località più famose ossia Città Altatorre, comandata dal Re Anthagast. Curioso però come il fiume Miluo delineasse sì i confini della città ma non quelli effettivi del territorio, difatti la nostra storia ha come sfondo la Rocca del Giudice Taleenjos, un uomo conosciuto per essere ligio, ferreo, indomabile e con la coscienza pulita.

    Un grand’uomo direte voi e probabilmente la sua reputazione era degna: lui e suo fratello, uno dei compianti Cavalieri al servizio di Anthagast, avevano fatto molto per la famiglia di Aasimar e per la città, difendendola da attacchi esterni e mantenendo l’ordine interno. Per così dire, la famiglia Taleenjos aveva – e probabilmente tutt’ora ha – grande prestigio sui territori. Costui aveva appunto sofferto anni prima di un terribile lutto, suo fratello con sua moglie, tutta la piccola rocca data alle fiamme e sembrava che nessuno fosse sopravvissuto, neanche la piccola figlia sua nipote, Ysabelle, fagocitata come tutti dalle terribili fiamme che venivano narrate come “indomabili”, “non di questo mondo”, “infernali”.
    Lo Zehadin scoprì che in quella zona c’era bisogno di una guardia che non facesse domande per guadagnare bene, bene a sufficienza da poter viaggiare ancora per molto secondo il mercenario e così si presentò alle porte dell’abitazione del Giudice per poter parlare con chi di dovere.

    Quando lo portarono davanti al padrone di casa fu strano ma non si impensierì troppo l’anziano combattente, supponendo che il Giudice, proprio in virtù della sua natura giudicatrice, avesse desiderio di capire quale uomo o donna dovesse ospitare sotto il suo tetto. Taleenjos era un uomo basso, molto più basso di un umano iboitha normale, avvicinandosi pericolosamente alla stregua dei nani ma con un corpo che con la nobile razza di Ogun non c’entrava assolutamente nulla: smunto, dalla pelle pallida con una strana sfumatura di verde che gli dava sempre un’aria malsana. Aveva una fronte spaziosa e capelli cortissimi, dritti ed implotonati così bene da rassomigliare ad una spazzola per strigliare i cavalli, di un colore che un tempo sicuramente era scuro, come la barbetta a mo’ di capra sulla punta del mento. Il naso prominente, con narici strette ed una gobba sul principio del setto nasale su cui posava i piccoli occhiali tondi cerchiati d’oro, divideva i due occhi che erano naturalmente piegati in un’espressione indagatrice ed accigliata, con le folte sopracciglia a condire il tutto. Non un bell’uomo sicuro.

    Più che un colloquio ci fu una vera e propria inchiesta, Khardan si sentì decisamente preso di mira poiché i suoi racconti variopinti insospettivano il Giudice, soprattutto per la quantità di tempo che ognuno di essi portava via e in una sola vita umana non era possibile avere tutte quelle esperienze. Quando venne manifestato il dubbio il mercenario spiegò che era un umano Zehadin e con l’espressione più inquisitoria che riuscì mai a vedere sul volto di un uomo si sentì chiedere «Come mai uno Zehadin non studia la magia?» a cui rispose con «Come mai un Giudice famoso ha bisogno di un mercenario quando ha una guarnigione di soldati?» Se anche uno come lui aveva subodorato che qualcosa non stesse andando bene, voleva dire che il sospetto era tanto palpabile da poterlo plasmare con le nude mani: non era il tipo da fare domande, come effettivamente era sempre stato, ma essere così bersagliato lo aveva infastidito. Klutz era un fastidioso damerino, di quelli che muovevano le fila dietro alle proprie marionette e che risultava essere efficace e gradito ai potenti e c’era un solo posto dove gente di quella risma poteva stare ad uno come lui: sul cazzo.

    Fu però evidente che qualcosa convinse il Giudice poiché lo istruì su quello che doveva fare. Fu personalmente accompagnato all’interno della magione, muovendosi tra i vari corridoi che aveva – per deformazione mentale – imparato già a memoria fino al raggiungimento di una porta alta, doppia, intarsiata che aveva tutta l’aria di essere la stanza in una delle torri agli angoli della costruzione. L’ordine era semplice e basilare: doveva fare la guardia lì tutta la notte, il mattino dopo avrebbe ricevuto il suo compenso e se ne sarebbe potuto andare senza alcuna ripercussione. Vista così la cosa sembrava assolutamente vantaggiosa per il vecchio combattente e chiese semplicemente una sedia ed una brocca d’acqua per la notte, così da non doversi spostare troppo dalla posizione. Vennero acconsentiti ma nulla di più.

    Seduto a braccia incrociate e in posizione neanche troppo composta, con lo spadone pronto per essere sguainato in ogni istante, Khardan osservava il corridoio che si estendeva proprio davanti alla porta, un corridoio piuttosto lungo in realtà che finiva con le scale a chiocciola che aveva già percorso. Le domande non erano proprio all’ordine del giorno, era lì solo per il compenso e voleva che quella notte finisse presto – si sarebbe accampato da qualche parte o sarebbe andato a città Altatorre centrale dove fare una giornata serena, magari anche un bagno e così partire di nuovo verso il nord, verso il Kalazar, che effettivamente non camminava tra quelle cime innevate da un po’. Qualcosa però destabilizzò i suoi pensieri: alle sue spalle, oltre la porta, percepì qualcosa di strano. Era come se il vento fosse diventato più denso, spesso e che avesse volteggiato in maniera elegante fin dentro alla stanza, guadagnando improvvisamente peso. Solo che l’aria non aveva “corpo” con cui “pesare”. Si alzò, magari era la persona che stava al di là della porta ad essersi mossa perché, ne era più che sicuro, qualcuno viveva in quella stanza.

    Al di là della porta dopo aver appoggiato l’orecchio, qualche secondo di silenzio furono più che sufficienti per capire che qualcosa stava succedendo perché una persona aveva appena sobbalzato di paura e aveva urlato. Era una voce femminile, giovane, terrorizzata e che stava gridando. I rumori di vesti e di passi furono fin troppo chiari, qualcuno era entrato dall’alta finestra della torre per eliminare la persona che stava al di là della porta.
    Khardan mise mano alla maniglia e spinse. Senza alcun successo. Rimase fermo due secondi a soppesare la maniglia stretta nel pugno mentre gli urli si stavano alzando sempre di più. Per quale motivo una porta del genere doveva essere chiusa? Dandole anche delle spallate non ottenne alcun risultato e diede, per la prima volta, attenzione totale alle assi di legno e ferro che la componevano: fattura nanica, porta di sicurezza senza ombra di dubbio, di quelle che avevano quelle fastidiose stecche di ferro ad incastro che rendevano impossibile superarle normalmente.

    In tutto questo il tafferuglio interno non faceva che aumentare e l’uomo prese la decisione più ovvia: imbracciato lo spadone si preparò a sfondare anche perché la cosa più preoccupante fu non sentire più niente – se aveva fallito, niente soldi e questo sarebbe stato un grosso problema per non usare un termine tecnico molto più calzante. Decise di abbandonarsi al sangue demoniaco, richiamandolo come era sempre stato in grado di fare per ottenere la forza necessaria ad abbattere la porta a colpi di spada. Furono necessari tre colpi prima di sfondare completamente legno e ferro, spegnendo immediatamente la sua Ira nell’osservare cosa c’era al di là. Quella stanza circolare di pietra, con qualche drappo, un letto ed una scrivania ricolma di libri così come lo stipo che stava vicino alla finestra che portava al terrazzino erano imbrattati completamente di sangue e due figure erano al centro del dramma, una scura ed irriconoscibile morta e sollevata in aria da mani piccole ma munite di forza a sufficienza da far entrare le unghie – non umane – dentro la carne e inzuppare completamente la creaturina che stava lì, piangente ed ansante.

    Di molte scene che l’uomo aveva visto, nessuna batté quella della bambina – perché giovane donna era ancora troppo come definizione – che aveva appena ucciso un uomo a mani nude, rossa di sangue e di terrore per quello che aveva fatto. Si girò a guardare lo Zehadin con la disperazione negli occhi, le lacrime che lavavano via il rosso dalle guance e come se improvvisamente il cadavere scottasse lo lasciò andare, facendolo ricadere a terra in maniera sgraziata. Nel suo pianto silenzioso la fanciulla guardava il mercenario con la stessa paura e sollevava gli artigli simile ad un gattino spaventato, un gattino però che aveva avuto abbastanza sangue freddo da ammazzare un uomo adulto. Khardan che era scemo ma non stupido, cominciò a soppesare la situazione e rimise lo spadone dietro la schiena.

    «Stai bene?» Domanda futile, era ovvio che la povera bambina non stesse bene, era sul limite di una crisi di nervi bella e buona ma annuì, ancora spaventata e non pronta ad abbassare la guardia. Ansimava esattamente come lui, affaticata nella stessa maniera ma in quel momento l’uomo non ci fece caso. Preferì inginocchiarsi sul sicario e cominciare a tastare quello che aveva. Fischiò piano con ammirata ironia nel vedere i pugnali, i veleni, un paio di lettere scritte in una lingua che non conosceva ma che aveva un sigillo particolare che aveva riconosciuto subito: famiglia Taleenjos. Altra cosa sospetta fu il non sentire lo scalpiccio di schinieri metallici che avrebbero dovuto giungere velocemente alla torre, un attacco del genere e il rumore che avevano provocato avrebbe dovuto destare tutto il circondario ma niente, nessuno venne in soccorso. La cosa puzzava fin troppo. Anche per uno che non sapeva leggere così bene la stanza.

    La decisione fu veramente istantanea, prese lo spadone – la fanciulla aspirò aria con paura al punto da pigolare – ed infilzò malamente il cadavere dell’uomo da parte a parte, sbrodolando ancora di più di sangue ed interiora il pavimento ed il tappeto sottostante. Sollevò tutto l’uomo ancora infilzato, impugnando lo spadone a due mani e si sporse dal terrazzino per vedere cosa ci fosse: c’era il cortile di un tempio, la campana, un paio di case e un rigagnolo di fiume che doveva essere uno delle tante diramazioni del Miluo. Prese la mira, sollevò le braccia, rievocò il sangue dei demoni e con uno sfiato lanciò via quello che rimaneva del sicario per tentare di colpire la campana, evitandola per un soffio e lasciando che il corpo si sfracellasse contro i mattoni prima di ricadere pesantemente a terra, lasciando gli ultimi rimasugli di sangue nell’aria.

    «… Tch! Era un lancio perfetto!» Gridò, così da farsi sentire dalle guardie sottostanti, tornando poi dentro alla stanza. La povera ragazza non capiva cosa stesse succedendo, era confusa e sporca di sangue. Sporca. Possiamo dire che in realtà era fatta di sangue: da capo a piedi tutto quello che era il suo corpo era madido di quel liquido rosso e ferroso, che aveva versato così tante volte sui campi di battaglia che l’odore era come avere a che fare con un vecchio amico. Fece cenno alla bambina di seguirlo ma non si mosse, era praticamente impietrita lì, immobile. L’uomo dunque prese la brocca d’acqua e gliela versò in faccia, pulendola alla bell’e meglio e facendole fare un secondo suono aspirato dalla bocca, questa volta oltraggiato. «Ti conviene seguirmi, se non vuoi che pure domani ti arriva un altro tipo del genere.»

    I due cominciarono a camminare nei corridoi, la povera ragazza dietro a lui rimaneva a stento al passo, dovette addirittura afferrare piano il mantello dell’uomo per non perdersi in quel maniero che non conosceva e che quella strana persona che sembrava un bruto ma che non le aveva fatto del male dava l'impressione di conoscere a menadito. Non ci volle molto, quando vide due guardie davanti ad una porta simile a quella della ragazza puntò molto velocemente quella direzione. Le due guardie tentarono di sbarrare la strada ma lui, senza neanche avvisare, prese i crani e li fece sbattere così forte l’uno con l’altro da mandarli al tappeto in un colpo solo, spegnendoli per un po’. Il calcio che divelse le porte fece alzare di scatto dalla scrivania Klutz che, brandendo la candela come fosse una torcia, cercò di illuminare la stanza e la persona che stava entrando. Forse per lui fu peggio vedere il sorriso per niente rassicurante dell’uomo, schizzato di sangue, avvolto nella penombra da dove spuntava timidamente ma con espressione sgomenta il volto della ragazza ancora inzaccherato di vita rossa che si stava ossidando.

    «Sono qui per il compenso.» Disse solamente, tirando fuori la lettera che aveva trovato sul corpo del sicario, mostrando ben bene il sigillo che era apposto sulla carta. Il Giudice, previdente, commentò subito la falsità della missiva ma Khardan non sembrò minimamente impressionato da quell’affermazione. «Quello che non ti è chiaro è che tu sei solo ed io faccio in tempo ad ammazzarti prima che chiami le guardie e lanciarti verso la campana fuori dalla finestra della ragazzina e – bada bene – questa volta la prendo. Sei più leggero del sicario che hai mandato.» Nacque così una discussione, rivelazione dopo rivelazione che la povera Ysabelle, figlia adottiva di suo fratello, unica superstite dell’incendio appiccato anni fa, era la stessa artefice del dramma. Neanche umana, una Changeling, tra l’altro nel suo corpo si nascondeva la furia degli Inferi ed era proprio con questa che aveva ammazzato i suoi parenti.
    Khardan osservò la ragazzina che cominciò ad andare in iperventilazione, come se improvvisamente i ricordi fossero riaffiorati tutti e vide di nuovo negli occhi di una giovane donna l’impotenza nel fronteggiare la rabbia, ciò che si era, il mostro oscuro dell’Ira che fuoriusciva e non ti faceva capire più niente. Come Linde, anche Ysabelle stava soffrendo solo che in quel preciso istante la Changeling stava morendo dentro.

    «Facciamo così» iniziò la contrattazione «Mi dai il compenso. Lei viene con me. Tu ti risolvi un problema e la faccia – a parte il sicario che la faccia l’ha impressa contro il tempio – e la chiudiamo qui. Non ci insegui, non ci rompi il cazzo, neanche se passiamo vieni a bussare.» Il Giudice osservò Khardan ma il fatto che nessuno dei suoi soldati fosse corso in aiuto lo fece accettare: sganciò ciò che doveva e guardò con stizza la nipote, sputandole ai piedi. Da quel giorno il Giudice Klutz Taleenjos era famoso per avere il naso fratturato in tre punti e che probabilmente era stato un prigioniero delle celle di Città Altatorre ad averlo colpito così in malomodo.

    I due quindi, per quanto la bambina fosse riluttante, se ne andarono e Khardan puntò subito ad una taverna di quelle fuori mano per poterle far fare un bagno. Lei, evidentemente scossa, non si oppose e si lavò nonostante non fosse abituata alla spartana tinozza mentre versava le sue lacrime nell’acqua per aver compreso finalmente che tipo di vita gli era capitata. L’uomo diede una delle sue camicie pulite alla giovinetta come indumento, l’unico che aveva ancora sano, così da poterla coprire con qualcosa che non fosse un lenzuolo. Il giorno dopo sarebbero andati a fare compere. Ysabelle stette zitta. Per buona parte del viaggio il suo dolore la costrinse al mutismo e Khardan, di suo, cercava di parlarle, di darle una sorta di sicurezza. Chi meglio di lui poteva capire la condizione di un sangue così odiato dentro il corpo? L'ira che ne scaturiva? Forse questo la portò ad aprirsi più in là ma l'unico gesto di propria iniziativa nei suoi confronti era afferrare il mantello dell’uomo per poter stare al passo, compiendo i suoi stessi movimenti, al punto che cominciò a chiamarla Ombretta – poiché era piccola e lo seguiva di continuo.

    Oramai a ridosso del freddo Kalazar la bambina cominciò a parlare, domandando con paura perché l’avesse salvata, a che scopo. Non poteva di certo richiedere un riscatto, quell’uomo brutale ma dall’animo gentile, anche se non sembrava il tipo di persona che prendeva un riscatto rapendo chissà chi. Infatti Khardan ne rise con forza. «Ombretta, ti pare? No no. Mi dispiaceva per te e ti porto dove quelli come noi non sono visti così male. Certo, devi farti un nome ma almeno non siamo messi così male.» Quando la giovane chiese spiegazioni lui sostenne solo che il tempo gli avrebbe dato ragione. Le alte montagne del Kalazar non avevano pregiudizi, lì si combatteva per vivere un giorno di più, ogni vita era importante ed ogni vita tolta era ugualmente importante.

    Fu un giorno, uno in particolare, dopo averla fatta ambientare. La portò con sé in una ronda. Il freddo le tagliava le guance, le pesanti vesti la tenevano al caldo ma la neve faceva affondare gli stivali fino al polpaccio – lei era più bassa dell’uomo, quindi faceva più fatica ma si aggrappava comunque strenuamente al mantello che l’aveva sempre guidata verso qualcosa che era sicuramente più difficile ma migliore. Su un promontorio l’uomo si inginocchiò, nascondendosi e così fece lei. All’orizzonte una creatura orribile, deforme, con segni scarificati che avevano tutta l’apparenza di essere glifi abissali o infernali, non sapeva dirlo. Khardan le mostrò la cosa e le suggerì come comportarsi. Il più semplice dei consigli. «Sfogati.»

    Ombretta non capiva, in che senso doveva sfogarsi? Cosa doveva fare? Ma la spinta dell’uomo dietro la schiena la fece uscire allo scoperto e la cosa registrò il nemico nei paraggi. Lei urlò ma la cosa non sembrò minimamente impressionata e si spostò in avanti, sciogliendo la neve e graffiando il ghiaccio, cercando di azzannarla. Il sangue che uscì dal braccio della ragazzina fu un picco di dolore che lei non aveva mai provato, bruciava forte e allo stesso tempo non gli piaceva. Fu troppo naturale arrabbiarsi, fu praticamente facile come bere un bicchiere d’acqua e per la primissima volta nella sua vita, l’Ira del Sangue le suggerì la stessa cosa che le aveva suggerito Khardan. Di sfogarsi.

    L’uomo si avvicinò alla figura di Ombretta, sporca di sangue da capo a piedi mentre aveva fatto uno scempio della creatura. Non era narrabile quello che era successo, aveva dato fondo a tutta la violenza in feroci colpi d’artigli che avevano reciso tutto quello che poteva essere reciso, spargendo l’icore demoniaca mentre le sue dita e le sue unghie puzzavano ancora di fiamme e zolfo. Quando la mano dell’uomo si appoggiò sulla spalla scattò, guardandolo, ancora istintivamente legata al momento della battaglia ma riconoscendo in lui la persona che l’aveva salvata – seppur spinta nella fossa dei leoni – le permise di non attaccare. «Qui a nessuno interessa del tuo sangue. L’unica cosa che importa quassù è quale sangue versi.» La ragazzina osservò la creatura. Il sangue non era uno status quo. Il sangue non avrebbe deciso le sue azioni. Né l'avrebbe imprigionata.
    Il sangue non era niente di più che un colore sulla neve fresca.
     
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